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L’eterno problema della fiction Rai

Le fiction della Rai, di solito, vanno piuttosto bene dal punto di vista degli ascolti sul pubblico totale (molto meglio dell’intrattenimento che risulta zoppicante). Non sempre – oseremmo dire quasi mai – le fiction vincenti sul totale degli individui risultano però altrettanto di successo sul target più appetibile per il mercato pubblicitario. 

Ieri sera il finale di Un Matrimonio, con oltre 5,5 mln di spettatori, è uscita sconfitta sul target commerciale (15-64 anni) nella gara con Il Tredicesimo Apostolo, nonostante questo si sia fermato ad appena 4 mln di spettatori. In soldoni ciò significa che la fiction Rai è andata particolarmente forte sul pubblico più anziano. Spesso accade questo e quasi sempre la dinamica è prevedibile visto che Rai1 sembra sempre puntare sull’usato sicuro dell’effetto nostalgia. Ne avevamo parlato anche tre settimane fa (qui »).

Ne riparliamo perché è giusto capire il meccanismo che porta una fiction che puzza di naftalina (Un Matrimonio) a vincere su una serie (forse fin troppo) innovativa (Il Tredicesimo Apostolo).

Prendiamo a prestito le perfette parole di Aldo Grasso sul Corriere della Sera di stamani a proposito di Un Matrimonio:

Al di là di ogni giudizio di merito […], si deve tuttavia constatare come «Un matrimonio» sia un corpo estraneo alla moderna serialità: è solo un lungo, bozzettistico film in sei puntate, come si faceva negli anni 80.

Il problema si allarga dalla fiction in questione alla totalità della produzione seriale di Rai1:

Come al solito, la Rai ha fatto la scelta di proporre un prodotto che guarda all’indietro, che gratifica il pubblico di Rai1 addestrato alla nostalgia, al donmatteismo e alle agiografie.

Per il critico televisivo del Corriere, Un Matrimonio è “una serie che ignora totalmente i meccanismi della serialità”. E infine il giudizio di Grasso si fa più duro ma anche estremamente condivisibile:

Rai Fiction è ancora prigioniera di un’estetica autoriale e di una cultura che dal neorealismo in avanti (a parte poche eccezioni) ha rinunciato alla possibilità di «pensare in grande», di riflettere sulla complessità della scrittura seriale, di far emergere il valore e le qualità dei singoli e non di smarrirsi nelle manie di grandezza individuali.

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